Il Piemonte e i suoi vitigni
Conoscere i vitigni per capire ed apprezzare le varietà dei vini piemontesi
La gran parte dei vini Piemontesi sono monovarietali, cioè prodotti con un’unica uva.
In Piemonte sono partiti i primi esempi di zonazione delle aree vitivinicole, definendo concetti come terroir e cru: uno specifico vino è prodotto esclusivamente con uve provenienti da un’unico vigneto o parcella il cui nome compare in etichetta.
In Piemonte c’è una grande quantità di varietà di VITIGNI AUTOCTONI:
I suoi frutti regalano vini molto strutturati e adatti all’invecchiamento, ma a seconda del terreno presentano peculiarità davvero molto diverse.
Il Nebbiolo compare già in documenti del 1300, ma raggiunge l’apice della sua espressione nella metà del XVII secolo quando, grazie ai nuovi metodi di vinificazione introdotti nelle Langhe tramite la famiglia reale dei Savoia, dà vita al vino Barolo e inizia ad ottenere grandi apprezzamenti anche fuori regione.
Si registra però una fase di declino a fine ‘800 a causa dell’arrivo delle malattie della vite (oidio, peronospora e fillossera) che costrinsero i contadini a limitare la coltivazione del Nebbiolo solo nelle zone vocate, ben esposte al sole, dove questa varietà sa esprimersi al meglio.
I vini a base Barbera presentano quasi sempre una piacevole freschezza in bocca, dovuta alla spiccata acidità dell’uva. A seconda del terreno in cui viene coltivato, sa regalare vini di ottima struttura, adatti anche all’invecchiamento in legno.
L’origine del Barbera si colloca sulle terre che furono prima del Marchesato e poi del Ducato di Monferrato e vi sono tracce della sua presenza già in documenti di metà 1200. La sua massima diffusione si ebbe nel 1800, quando veniva utilizzato per la produzione di un vino destinato al consumo popolare.
Oggi la superficie dedicata a questa varietà si è leggermente ridotta, ma in compenso ha ottenuto una grande rivalutazione, ponendola in stretta competizione con il Nebbiolo.
A seconda della zona e del tipo di vinificazione, sa anche essere austero ed importante e si può invecchiare fino a sei sette anni. Tende a produrre un alto numero di grappoli che i viticoltori cercano di ridurre per ottimizzare la maturazione e la qualità. E’ una varietà che teme le piogge in prossimità della vendemmia e richiede in generale molte cure per garantire un frutto ottimale.
In autunno le sue foglie si distinguono per le sfumature rosso-aranciate che vanno a colorare le colline con della chiazze dai toni molto caldi.
Questo vitigno ha un passato ricco di apprezzamenti anche oltre i confini locali, essendo arrivato addirittura sulle tavole di Re Luigi XIV grazie alle diplomazie piemontesi.
La maturazione precoce delle uve ha contribuito alla sua diffusione in tutto il sud del Piemonte, ma verso la fine dell’800 venne ridimensionato per dare spazio alla coltivazione del vitigno Moscato, soprattutto nell’Astigiano e nella Valle Belbo.
Il nome deriva quasi sicuramente da “grignole” termine dialettale astigiano ad indicare i vinaccioli particolarmente numerosi. Il Grignolino un tempo veniva denominato anche Barbesino.
Uno dei capostipiti della vastissima famiglia dei Moscato, ha trovato la sua terra d’elezione in Piemonte e in particolare sulle dolci colline del Monferrato.
Il vitigno del moscato bianco ha origine antichissime che risalgono già al tempo dei Romani, ma ha raggiunto il suo exploit a partire dalla seconda metà del 1500 quando i viticoltori di Langa erano obbligati a impiantare nei nuovi vigneti una percentuale di questa varietà.
Da quel momento in avanti, sono molti i riferimenti a questa uva, in svariati documenti, per poi arrivare alle tecniche di spumantizzazione importate dalla Francia nella seconda metà del 1800 da Carlo Gancia.
Seguirono nuovi studi per migliorare le tecniche produttive, come il sistema Martinotti di spumantizzazione in grandi recipienti.
Preferisce terreni leggeri e sabbiosi esposti a sud-est e ovest, con una buona escursione termica e lontani dalle brinate primaverili. Germoglia nella terza decade di aprile.
Le origine di questo vitigno a bacca bianca non sono molto chiare, ma si trovano riferimenti al nome “arneis” dal 1800.
I riferimenti storici a questa varietà la descrivono come pregiata e di alta qualità.
A inizio 1900 l’Arneis era considerato l’uva bianca più preziosa: nel 1920 raggiunse il prezzo di 28£ al miriagrammo, il doppio delle altre varietà.
Prima veniva utilizzato per produrre vini dolci, ma a partire dagli anni ’60 si iniziò la vinificazione in purezza per ottenere un vino elegante, secco, morbido e con sentori fruttati e floreali.
Le origini del vitigno Brachetto non sono molto chiare. Si ipotizzata un’origine francese, nel Nizzardo (Vitis vinifera niceanenis), poi c’è qualche riferimento all’inizio del 1700 quando il Brachetto è citato insieme al Moscato, tra i vini serviti alla corte dei Savoia.
Nell’800 compare elencato in una pubblicazione edita dalla Reale Società Agraria di Torino tra le tipologie di vigneto presente nel Canavese e in Valle d’Aosta e in un’esposizione di uve a Rocchetta Tanaro.
A fine 1800 iniziano a delinearsi due tipologie di Brachetto, quella piemontese, aromatica, e quella del Nizzardo, a sapore semplice. Con l’arrivo delle tecniche di spumantizzazione nell’astigiano all’inizio del ‘900, il brachetto conosce grande successo come base per i vini spumanti, vedendo riconosciute le sue caratteristiche aromatiche e i sentori floreali.
Dopo un periodo buio che dura per quasi tutto il secolo, negli Anni ’90 ritrova apprezzamenti e riconoscimenti, in vigore tutt’ora.
E’ piuttosto difficile da coltivare in quanto è poco robusto e necessita di condizioni climatica molto favorevoli.
In documenti di fine 1600 ci sono già riferimenti a vigneti di Cortese, ma sarà con Demaria e Leardi nella loro opera del 1870 sui vitigni coltivati all’epoca che il Cortese viene riconosciuto ufficialmente come varietà tipica dell’area alessandrina.
Recentemente è stato sviluppato in versione spumante, ottimo da abbinare a piatti di pesce.
La produzione, ancora piuttosto limitata, ne fa un vino di nicchia.
La Doc attualmente è: Colli Tortonesi Timorasso, comprensiva della sottozona Terre di Libarna.
È stato coltivato in provincia di Alessandria fin dall’antichità: se ne hanno testimonianze già nel XIV secolo, nel Trattato di agronomia di Pietro de’ Crescenzi, e nel Bollettino Ampelografico del Di Rovasenda, del 1885 che segnalava tale vitigno come il maggiormente coltivato nel Tortonese. Nel corso dei secoli è stato lentamente abbandonato a favore delle uve a bacca rossa più produttive e meno delicate come barbera e croatina.
Negli anni ’80 alcuni vignaioli del tortonese, in primis Walter Massa, hanno deciso di riportarlo in vita, scommettendo sulle sue grandi potenzialità.
Il vitigno Pelaverga venne poi introdotto nel comune di Verduno nel XVII secolo dal Beato Sebastiano Valfrè, il quale porto alcune piante di vite coltivate nella zona di Saluzzo. Il vitigno, anche a causa della produzione poco costante, sembrava condannato a scomparire.
Negli anni 70, grazie all’intuizione di alcuni vignaioli di Verduno, il Pelaverga venne recuperato e salvato dall’estinzione.
Il nome Bonarda deriva dall’aggettivo “buono”, quest’uva infatti è anche spesso utilizzata come uva da tavola.
La prima volta in cui compare il nome “Bonarda” in un documento ufficiale risale alla fine del 1700 per indicare un vitigno rosso delle colline torinesi.
Successivamente sono stati utilizzati altri sinonimi per definire lo stesso vitigno come Bonarda di Chieri, Bonarda del Monferrato, Bonarda di Gattinara o Uva Balsamina.
Già dal secolo XVIII viene coltivata in Alto Piemonte (province di Novara, Vercelli e Biella), dove è vinificata anche in purezza nelle due denominazioni di zona (Coste della Sesia e Colline Novaresi), ed entra nell’uvaggio delle DOC Lessona, Bramaterra, Boca, Fara e Sizzano e delle DOCG Gattinara e Ghemme.
Il grappolo maturo si riconosce per il suo colore dorato e le macchie color ruggine. Nella sua monografia, il Fantini menziona la Nas-cetta già a metà del 1800 come varietà tipica del comune di Novello, dove ancora oggi si trovano la maggior parte delle vigne.
In passato quest’uva veniva sia consumata a tavola, sia vinificata in uvaggio con la Favorita per ottenere vini con una maggiore ampiezza olfattiva. Oggi viene lavorata in purezza per esaltare tutte le sue potenzialità, sia come vino giovane che affinato in legno.
Il vitigno viene utilizzato in purezza nella produzione di alcuni storici vini canavesani
Le prime notizie sull’erbaluce risalgono al 1606, quando viene menzionato con il nome di Elbalus in un testo di Giovan Battista Croce, gioielliere presso il duca Carlo Emanuele I di Savoia.
Le sue origini sono piuttosto controverse: secondo una teoria ormai poco accreditata deriverebbe da una varietà di Trebbiano, conosciuta in Lombardia con il nome di Bianchera. Indagini genetiche più recenti lo collegano invece con un altro vitigno piemontese, il Cascarolo bianco.
Prima dell’introduzione dello Chardonnay l’Erbaluce è stato per lungo tempo l’unico vitigno a bacca bianca raccomandato nel territorio della Città metropolitana di Torino. La tradizionale forma di allevamento utilizzata nel Canavese per l’erbaluce è la pergola, anche se attualmente sono diffuse anche altre forme di allevamento.
Il nome ha un’etimologia incerta: alcuni lo farebbero risalire alla Confraternita dei frati di San Rocco, altri alla predilezione del Ruchè per le rocche più scoscese e assolate. Altri ancora fanno derivare il nome da “roncet”, una degenerazione infettiva di origine virale, per la sua maggior resistenza alla virosi rispetto ad altre varietà allevate in zona.
Dal vitigno Ruchè si ottiene un vino dal colore rosso rubino, profumi delicati di rosa e fragolina di bosco, gusto non molto pieno, gradevole, abbastanza equilibrato. Può anche servire a produrre un vino dolce o abboccato, piacevolmente aromatico (con note di rosa e di piccoli frutti). Frequentemente si aggiunge una piccola percentuale di Barbera per aumentarne la conservabilità e l’acidità totale.
Il Freisa ha una storia molto antica, infatti le prime testimonianze scritte risalgono al cinquecento quando un vino molto pregiato con il nome di Fresearum veniva inserito in alcuni tariffari della dogana piemontese del comune di Pancalieri, nell’attuale provincia di Torino.
Il Di Rovasenda lo inserì tra i più diffusi vitigni del Piemonte nel suo Album ampelografico. Sono documentate almeno due varietà di Freisa, la Freisa Piccola, meno produttiva e più adatta alle zone collinari, e la Freisa Grossa, più produttiva ma qualitativamente meno pregiata.
La Croatina è utilizzata esclusivamente in uvaggio con altri vitigni, tipo la Bonarda piemontese e la Vespolina nel Novarese e nell’Oltrepò con Barbera e Uva Rara, ai quali la apporta morbidezza e colore.
Dal vitigno Croatina vinificato in purezza, si ottiene un vino di colore rosso rubino e riflessi violacei, profumo intenso, floreale con sentore di viola, speziato con chiodi di garofano e pepe, fruttato con sentori di ciliegia, frutti di bosco e confettura di marmellata; fresco, caldo, leggermente tannico, di corpo. Particolare rilievo sono le caratteristiche legate alla struttura polifenolica di origine tannica, quali amaro e astringenza.
Alcuni VITIGNI INTERNAZIONALI utilizzati in Piemonte
Fin dalla prima metà dell’800 aleggiava in Piemonte una curiosa voglia di Spumante e certamente la contiguità territoriale con le prestigiose zone di produzione francese incentivava questa ambizione tra i produttori locali.
Il primo passo fu quello di impiantare vigneti come Pinot Noir e Chardonnay per avere le stesse basi utilizzate in Francia, parallelamente alla ricerca di altre varietà locali adatte a questo tipo di vinificazione.
Dalla terra piemontese, in particolare dalle vigne situate oltre i 250 s.l.m., questi due vitigni internazionali donano risultati davvero superlativi.
Viene vinificato sia in rosso che in bianco e utilizzato anche come base per gli spumanti.
Fin dalla prima metà dell’800 aleggiava in Piemonte una curiosa voglia di Spumante e certamente la contiguità territoriale con le prestigiose zone di produzione francese incentivava questa ambizione tra i produttori locali.
Il primo passo fu quello di impiantare vigneti come Pinot Noir e Chardonnay per avere le stesse basi utilizzate in Francia, parallelamente alla ricerca di altre varietà locali adatte a questo tipo di vinificazione.
Dalla terra piemontese, in particolare dalle vigne situate oltre i 250 s.l.m., questi due vitigni internazionali donano risultati davvero superlativi.